La scena si colloca più o meno a metà del film ungherese “Corpo e anima”. Pausa pranzo dentro a una mensa aziendale. Lei, che fino a quel momento si era mostrata indifferente e apparentemente anaffettiva, si avvicina al tavolo dove lui sta mangiando con un collega. Lascia intuire che vorrebbe sedersi con loro, ma poi semplicemente si avvicina a lui, esitando. Riesce a pronunciare solo poche parole: “Io credo che…che...tu sia una meraviglia”. Poi sparisce dalla vista.
La scena è molto potente, di quelle che squarciano un film in due, che squarciano una vita in due o che si possono aspettare invano anche per una vita intera.
Il campo semantico della meraviglia mi è caro, ma solo in un’altra occasione ne sono rimasto colpito con tanta forza. Accadde quando lessi Andrè Breton che scriveva di Guillaume Apollinaire: “Era un grossissimo personaggio: in ogni caso, come non ne ho più visti dopo di lui. Un po’ stralunato, questo è vero. Era il lirismo fatto persona. […] Si era scelto per motto: “Io meraviglio”. Apollinaire era il poeta che della meraviglia aveva fatto una sorta di manifesto.
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