Dieci anni fa usciva “Memoria dell’acqua”, la mia prima
opera di narrativa. La presentazione numero uno fu a Modena, al Foro Boario, poi
ne seguirono varie altre nelle province della grande pianura, durante un’estate
2012 che si allungò come un viaggetto sul Po.
Il racconto breve che inaugurava la raccolta aveva i toni emozional-sentimentali dell’elegia. A distanza di anni guardo a questo racconto ancora con affetto. Eccolo qui, per celebrare la ricorrenza:
Un mantovano a Bologna
Un mantovano a Bologna è
come un americano a Parigi e si muove leggero come in un musical sotto
l’infilata di portici al ritmo di George Gershwin. Appena giunge nel capoluogo
emiliano pensa di essere ringiovanito improvvisamente di dieci anni: è nella
stessa città che ha sempre conosciuto, semplicemente grande due volte tanto e
allora ha l’impressione di tornare in un luogo della memoria infantile che il
ricordo trasmette sovradimensionato in ogni suo aspetto.
Un mantovano a Bologna si
accorge subito che c’è qualcosa di insolito in quella città così simile:
manifesti, volantini, graffiti, locandine, affiche, cartelli, puntine, scotch,
attacchini, poster e pure tazebao, tutti sovrapposti in quantità industriale a
tappezzare le strade del passaggio universitario. Il collettivo studentesco
convoca per questa sera una riunione sul tema: esiste ancora la scuola pubblica?
Oggi sciopero per la fame nel Bangladesh. Lezioni gratis di lingua inglese:
chiama questo numero. E allora si rimane come perplessi pensando al nostro
tessuto urbano, così lindo, così netto, così rinascimentale, privo di tutta
questa carta viva.
Un mantovano a Bologna
prende casa spesso assieme ai suoi concittadini che lasciano con lui la città
alla fine delle scuole superiori e almeno nei primi mesi questa è la sua
dimensione: torna sempre a casa il week end, svuota la biancheria sporca,
saluta la famiglia, dà un bacio alla fidanzata. Poi, col passare del tempo, si
accorge di vivere in una delle poche metropoli di provincia e diventa
desideroso di gustarne il sapore. E allora parla con accento toscano se
condivide l’affitto con ragazzi livornesi e addirittura comincia a passare nel
capoluogo emiliano i fine settimana. E, sia ben chiaro, è un fatto che gli
costa non poco a livello emotivo.
Un mantovano a Bologna non è
come dire un mantovano a Milano, un mantovano a Roma, un mantovano a New York,
perché solo nel primo caso si evita quella dinamica di amore/odio che lega i
nostri migranti sbalzati dalle comodità piccolo-urbane al traffico micidiale
regolato dai clacson e non dai semafori, dalle compressioni in metropolitana e
non dallo struscio per negozi. E’ tutt’altra cosa, è la stessa sensazione di
passare nel salotto di sempre una serata in cui si è appena comprato un divano
nuovo.
Un mantovano a Bologna è
quasi certamente un turista per caso.
Un mantovano a Bologna è un
po’ come dire un ferrarese a Bologna o un modenese a Bologna, forse con l’unica
differenza del trasporto pubblico difficoltoso che determina una pseudo
distanza virtuale tra le due città: è una distanza che culturalmente non
esiste, ma che di fatto pone un vincolo più che altro emotivo e trasforma in
spazi di intensa riflessione filosofica piccole stazioni di campagna come
quelle di Gonzaga o di Rolo.
Un mantovano a Bologna,
quando ci ritorna, anni dopo, dopo aver lasciato la dotta comunità felsinea e
gli studi, sente di appartenere a quella città che non compare più in nessun
documento di identità o in tessere qualsivoglia racchiuse nel portafoglio. Se
poi è temerario e piuttosto sentimentale, e percorre le strade del centro fino
a raggiungere la torre degli Asinelli e della Garisenda, può da lì iniziare a
imboccare Via Zamboni in senso opposto. La sua direzione di marcia risulta
contraria a quella degli studenti ventenni che dalle Facoltà si spargono a
spaglio verso la città, per andare a pranzare, per organizzare un pomeriggio di
studio collettivo in qualche biblioteca. E Via Zamboni in senso opposto diventa
la metafora di una vita trascorsa come un fiume nel quale non si può scendere
due volte.